
Sara e il suo coach Pablo hanno girato i quattro angoli del pianeta, prima nell’inferno degli ITF, i tornei minori, poi nel circuito WTA, un mondo tanto dorato quanto spietato. Hanno percorso insieme una lunga strada che ha portato la giovane tennista dal numero 500 alle prime dieci del mondo nel ranking di singolare e numero uno al mondo nel doppio nel quale, insieme a Roberta Vinci, si è aggiudicata quattro prove del Grande Slam. Un risultato che pochi, specie in Italia, avevano creduto possibile.
Il momento di svolta nella sua carriera avviene quando Sara scopre la sua nuova racchetta, la sua nuova “arma”. Tra tutti gli sport, il tennis è forse quello che più da vicino ricorda i duelli cavallereschi. Non c’è il pareggio, nel tennis. Nei poemi epici, i guerrieri trovavano coraggio, affidandosi al loro equipaggiamento a cui davano un nome. Ecco allora che Sara Errani battezza la sua nuova arma Excalibur.
Ne fa il suo talismano, il suo mantra, il segreto delia sua forza. Partita dopo partita, impegno, dedizione e sacrificio, Sara raggiunge la vetta: dopo quel match vinto in capo al mondo, nella fresca sera neozelandese, sul piccolo campo centrale di Auckland, in Australia ha imparato, ha capito che anche lei può comandare il gioco, che anche lei può tirare vincenti a ripetizione, anche lei può fare a pallate con le ipervitaminiche valchirie del tour femminile.
Di seguito vi proponiamo un estratto di “Excalibur – Il mio tennis sul tetto del mondo” ovvero la prefazione di Federico Ferrero.
“Ebbi le prime notizie sul conto di Sara Errani da vecchi compagni di telecronache. Con la ferocia che spesso colora le conversazioni private “di lavoro”, me la tratteggiarono con qualche pennellata al fiele: servizio da club, alza pallonetti, tira un vincente l’anno. Mentirei a me stesso, ancor prima che a voi, se dicessi di essermi invaghito del suo tennis quando la vidi giocare per la prima volta, una decina di anni fa: per quanto mi riguardava, il tennis femminile era l’arte di volo (pressoché senza eredi) di Martina Navratilova, il diritto mortifero di Steffi Graf, al più la geometria da maestrina della crudele Martina Hingis; sopportavo malvolentieri la genia delle bastonatrici-urlatrici del terzo millennio e, senza alcun dubbio, non rimpiangevo l’estinzione delle cosiddette pallettare, categoria cui mi pareva appartenesse quella giovane e minuscola ragazzina romagnola.
Tanti anni e una finale al Roland Garros più tardi, mi ritrovo con piacere a leggere il racconto appassionato di Roberto Commentucci. Il suo ardore, la sua – mi si passi il termine – concupiscenza per le sorti del tennis italiano hanno trovato un giusto premio nelle gioie di Flavia Pennetta, prima italiana di sempre a conquistare un posto tra le prime dieci tenniste del mondo (2009); poi di Francesca Schiavone, prima azzurra a riuscire nell’impresa esorbitante di vincere un torneo dello Slam (Parigi 2010); infine di Sara Errani, cui Roberto dedica questo racconto che è, a un tempo, di riscatto e di celebrazione. A sottovalutarla, del resto, eravamo stati in molti: tanto che il suo appellativo, Sarita, lungi dall’essere un simpatico nomignolo affibbiatole in virtù della statura contenuta, è un omaggio alla sua patria sportiva di adozione, la Spagna, in cui apprese il mestiere di campionessa quando nessuno, se non la sua famiglia e chi divideva quotidianamente con lei il campo, osava anche solo sperare nel successo che si è regalata negli ultimi due anni. Un gioco, il tennis, ormai ostaggio di centimetri e muscoli, anche nella sua versione rosa: eppure la Errani ha saputo stravolgere i requisiti di accesso al club di eccellenza con astuzie degne di Michael Chang, l’Einstein del nostro sport. Qualche centimetro di gap limato con una racchetta più lunga, l’attenzione maniacale ai dettagli, una strategia di gioco pensata per piegare le gambone e la resistenza delle picchiatrici forsennate di oggidì. Se è vero che non è richiesta la frequentazione del Politecnico per imparare i fondamenti del tennis, è altrettanto pacifico che le valchirie della racchetta (Williams, Azarenka, Sharapova) hanno restituito agli spettatori una versione fin troppo semplice del gioco: se si vuol vincere è sufficiente aggredire la palla, usarle violenza, farla sanguinare. A patto di essere delle superdonne. Con la stazza del fantino, invece, il mondo è tutto un altro: le partite si vincono con la corsa, la fatica, l’idea giusta, l’astuzia, la controffensiva. Non con i pallonetti: quelli non funzionano più. E serve una dose di tigna smisurata, non richiesta a chi sa di poter contare sui cavalli-motore di una fuoriserie. La rinuncia alla resa, ecco, è un ingrediente che trova il suo massimo esponente proprio in Sara Errani. Per una categoria, quella dei tennisti italiani, accusata per decenni di indulgere in capricci e mollezze dopo i primi successi, è una conquista di valore assoluto.
E poi il doppio, arte un poco desueta ma unica oasi sopravvissuta agli eventi per gli amanti di un tennis più di destrezza e meno di polmoni: certo, aver stretto un sodalizio con la miglior volèe del circuito, quella di Roberta Vinci, è stato per lei un autentico affare. Ma nel procedere ad allestire la collezione di titoli in coppia Sara Errani ha dato sfogo anche alle sue doti più nascoste, invisibili all’occhio dello spettatore non specializzato: il tocco, la sensibilità, la varietà, tutte qualità in preoccupante deperimento nei nostri tempi di palestra e violenza.
Nella sua doppia scalata al monte tennis, da singolarista e da doppista, Sara ha dato sfogo a virtù meno accattivanti di un colpo-cannone ma ugualmente utili alla causa: se la pantera Serena Williams può risolvere una partita scagliando ace a più di duecento chilometri all’ora – e facendo impallidire qualche suo collega maschio – alla Errani tocca aggiungere un cucchiaio di pensieri e di volontà a ciascun punto di ogni suo match. Con la consapevolezza di non poter contare mai su una scappatoia, su un’arma salvifica pronta all’uso nei momenti di difficoltà.
La storia di Sara, anzi, della sua mutazione da brava giocatrice a piccolo fenomeno, narra di una ragazza cui nulla è stato regalato. In un Paese abituato a tributare onori a donne baciate dal dono della bellezza e nulla più, ha il sapore di una meravigliosa rivalsa.”
Federico Ferrero